Intervista: il dottor Pacella ci racconta il suo impegno quotidiano al servizio dell’otorinolaringoiatria

Mag 30, 2022 | News

Il giovane e brillante dottor Alessandro Pacella opera presso il reparto di Otorinolaringoiatria dell’Ospedale Santa Maria della Misericordia di Urbino. Il reparto è una Unità Operativa Complessa UOC che eroga prestazioni in regime di ricovero, di day surgery e ambulatoriale, sotto la direzione del dottor Domenico Durso. A stimolare nel dottor Alessandro Pacella la passione per l’otorinolaringoiatria, è stata proprio la complessità di questa specialità, come lui stesso ci racconta.

Dottor Pacella, qual è stata la molla che ha fatto scattare la passione per l’otorinolaringoiatria?
Durante il percorso di studi in Medicina sono rimasto affascinato dai numerosi distretti di competenza ORL ma soprattutto dalla complessità anatomica e fisiologica di alcuni organi, primo dei quali l’orecchio. Una disciplina molto specialistica che però permette di spaziare dal campo funzionale, a quello oncologico, fino all’estetico. Incuriosito dalla teoria ho iniziato a frequentare il Reparto di Otorinolaringoiatria di Chieti, dove poi mi sono specializzato, per rendermi conto della pratica clinica. Le mie aspettative non sono state deluse, anzi assistere agli interventi chirurgici dal vivo, sfatando il mito dell’otorino “strappatonsille”, ha rafforzato la mia convinzione nell’intraprendere questa specializzazione. Il rapporto quotidiano con i bambini poi richiede una particolare sensibilità ed empatia che accrescono il proprio bagaglio professionale e umano.

Quali sono state le tappe della sua formazione?
Per due anni ho lavorato presso il Reparto ORL dell’Ospedale “Engles Profili” di Fabriano dove ho avuto modo di collaborare con i colleghi dell’ospedale di JESI intitolato a “Carlo Urbani”. Per indole sono molto curioso e pertanto sono andato a documentarmi sulla storia di questo collega che molti non conoscono ma che mi ha ispirato molto soprattutto alla luce degli ultimi eventi riguardanti la pandemia.

Questa storia ha incuriosito anche noi…
Nel 2003, Johnny Chen, un uomo d’affari americano colpito da una polmonite atipica, venne ricoverato presso l’ospedale di Hanoi. Il dott. Urbani fu immediatamente contattato dall’ospedale, dove subito si recò. Il medico, a differenza del resto dello staff presente, capì di trovarsi di fronte a una nuova malattia e che la situazione era critica. Lanciò dunque l’allarme al governo e all’Organizzazione mondiale della sanità, riuscendo a convincere le autorità locali ad adottare misure di quarantena. Circa 1 mese più tardi, tuttavia, durante un volo da Hanoi a Bangkok, Urbani iniziò a sentirsi febbricitante scoprendo così di avere contratto il morbo: all’atterraggio chiese quindi di essere immediatamente ricoverato e messo in quarantena. Fino alla fine si dimostrò sempre dedito alla salute altrui: ai medici accorsi dalla Germania e dall’Australia disse di prelevare i tessuti dei suoi polmoni, per analizzarli e utilizzarli per la ricerca. Morì il 29 marzo seguente, dopo diciannove giorni di isolamento, lasciando la moglie e i tre figli. Grazie alla prontezza di Urbani, lui e altri quattro operatori sanitari furono gli unici decessi per SARS osservati in tutto il Vietnam, che fu il primo paese del sud est-asiatico a dichiarare che la SARS era stata debellata. L’intervento immediato e mirato di Urbani permise di salvare migliaia di vite. Secondo l’OMS il metodo anti-pandemie da lui realizzato nel 2003 rappresenta, ancora oggi, un protocollo internazionale per combattere questo tipo di malattie.

Una storia esemplare per chi fa della medicina una vera e propria missione…
Assolutamente. Nel 2013 ho avuto modo di partecipare ad una missione umanitaria per conto di una onlus presso il Mafia District Hospital sull’isola di Mafia in Tanzania. È stata un’esperienza che ha cambiato molto il mio modo di affrontare la professione oltre che il rapporto con i pazienti. Nonostante le condizioni igienico sanitarie scarse e le enormi difficoltà che queste persone dovevano affrontare ogni giorno, sul loro volto era sempre presente un sorriso che da una parte rincuorava e dall’altra portava a ridimensionare i problemi della nostra società. Sono stato a stretto contatto con persone diventate ipoacusiche a causa della terapia con il chinino per la malaria, che chiedevano una soluzione alla loro disabilità, che ovviamente io non potevo dargli non avendo la possibilità di una protesizzazione acustica.

Secondo la sua esperienza, quali sono oggi le urgenze nella cura dell’udito?
Sappiamo dalle recenti stime dell’OMS che l’ipoacusia è un fenomeno che già oggi riguarda 360 milioni di persone nel mondo e 7 milioni di persone in Italia, con una progressiva incidenza di casi nei giovani fra i 15 e i 24 anni. Numeri destinati a raddoppiare nel giro di 30 anni con conseguenti effetti negativi sulla qualità della vita della popolazione mondiale e un progressivo aumento della spesa sanitaria. Quello che va sottolineato è che il calo dell’udito non riguarda più solo gli anziani. Si assiste ad un aumento preoccupante nell’incidenza di questa problematica fra gli adolescenti e i giovani adulti. L’esposizione prolungata a un rumore intenso è spesso all’origine della perdita dell’udito nei giovani e l’eccesso di rumore è ormai una costante nella vita di tutti i giorni. Questo fenomeno ha portato le ultime ricerche a soffermarsi sull’interazione fra udito e capacità cognitive e dell’apprendimento fra la popolazione più giovane.

Cosa ne è emerso?
Se in passato si parlava di ragazzi disattenti e smemorati, oggi è assodato che una percentuale di ragazzi accusati di scarso rendimento scolastico e difficoltà di apprendimento in realtà sono vittime di una ridotta sensibilità uditiva sottostimata. L’ipoacusia, infatti, oltre a isolare l’individuo, aumenta anche l’impegno che la persona deve applicare all’ascolto: uno sforzo e un affaticamento che vanno a discapito dell’apprendimento, aumentando le possibilità di distrazione e riducendo le facoltà cognitive. Il rischio di incorrere in problemi di udito tra i giovani non va dunque sottovalutato: non appena si manifestano campanelli d’allarme come il fastidioso disturbo degli acufeni o altri sintomi di possibile ipoacusia, è bene rivolgersi subito al proprio medico curante o affidarsi una visita otorinolaringoiatrica in modo da indagare tempestivamente cause ed entità del problema e poter decidere il trattamento più appropriato. In questo caso una diagnosi precoce resta di fatto l’arma migliore per evitare severe ripercussioni future sulla salute uditiva dei ragazzi.

Torniamo alla sua attività quotidiana. Può raccontarci quali sono i punti di forza dell’equipe con cui lavora e cosa invece si potrebbe migliorare?
Nel nostro reparto oltre alle molteplici prestazioni svolte sia in regime di ricovero, di day surgery e ambulatoriale, è stato attivato un servizio che si occupa di Disturbi respiratori del sonno con un ambulatorio dedicato. Fa parte di un PDTA regionale (Percorsi Diagnostici Terapeutici Assistenzial) in collaborazione con medici di base, pneumologi, anestesisti, pediatri, neurologi e internisti. Tra le attività che potremmo migliorare c’è sicuramente la parte che riguarda l’implantologia protesica uditiva. Ovviamente è un upgrade che richiede non solo know how chirurgico adeguato ma anche un investimento economico da parte della Regione e delle aziende produttrici. La carenza di personale, per concludere, è una problematica cronica non solo del nostro reparto o specialità, ma che riguarda ormai tutta la sfera sanitaria.

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